I RACCONTI DI SALVATORE CANTARO

I Racconti di Salvatore Cantaro

 

UN EMIGRANTE

Ho un amico che vive in Svizzera. Quante lotte ha dovuto affrontare per aprirsi una breccia nel sottobosco del mondo. Viene dal fondo perché dire dalla gavetta è troppo poco. Lo so perché l’ho sempre conosciuto.
Quando era in paese, tutto gli andava storto: aveva conoscenti che lo stimavano per il suo modo semplice e leale di trattare. Però ci sono sempre i marioli che, strisciando come serpenti hanno sempre approfittato della sua bontà e l’hanno inchiodato. Se le cose gli andavano bene per un certo periodo era un miracolo perché ogni tre, quattro mesi falliva e gli amici lo aiutavano, ma i profittatori lo facevano ricadere ed era sempre in condizioni più disperate.
Quando non si ha più voce e ci si trova nel buio pesto, allora ti calpestano tutti, anche le persone più vicine e care. Si, perché la moglie, non trovando modo di sbarcare il lunario e vedendo i figli ancora piccoli, sentiva un forte moto di rabbia che trascinava verso il disgusto e l’odio gli altri membri della famiglia. Era rimasto orfano in tenera età e da piccolo aveva dovuto sperimentare le miserie del mondo in un ambiente in cui la debolezza ed il bisogno spingevano i coetanei e gli adulti alla derisione: si sollazzavano alle sue spalle.
Ridere sulla vulnerabilità dei poveri di spirito e degli indifesi, m’è riuscito sempre disgustoso. Non capivo i piccoli e mi facevano tanta rabbia gli adulti: canzonavano i vecchi, gli sciocchi ed i mariti di belle donne: “A quel rammollito gli farei un corno. Se avessi la moglie per un’ora, le farei vedere chi sono i veri maschi”.
Era solo e piangeva! Aveva sempre bisogno di soldi perché aveva cambiali che scadevano.
Gli amici lo aiutavano, ma quando le richieste si ripetevano, si stufavano e anche loro gli voltavano le spalle.
Io potevo dargli un aiuto morale, perché i soldi li vedevo col cannocchiale. Studiavo e, a quei tempi, mio padre mi dava cento lire alla settimana, non bastavano neanche per comprare il biglietto del cinema.
Meno male che non avevo vizi!
Lavorava indefessamente, ma quando consegnava, non lo pagavano.
Se avesse potuto riscuotere tutto il denaro che onestamente guadagnava, avrebbe potuto fare una vita agiata.
Questo fenomeno sembra strano, assurdo, eppure affermo che era una grossa piaga delle zone più povere del Sud.
Prima di iniziare un lavoro, sapeva che aveva a che fare con dei profittatori, ma bastava che gli accennassero anche una vaga promessa, per cedere e dare inizio ai lavori.
A volte qualcosa gli davano, ma non bastava neanche per la materia prima. Sono sicuro che ha sempre saputo, prima di iniziare un lavoro, che il cliente non era del tutto solvibile o un profittatore della sua magnanimità.
Così succedeva che più lavorava più si metteva nei guai.
Una mattina è scomparso e per sei mesi non l’abbiamo visto.
Un giorno, per caso, passando davanti a casa sua, l’ho visto seduto al sole, magro e tanto pallido.
Dopo i convenevoli m’ha detto che era andato a lavorare in Nigeria come operaio addetto alla costruzione di una diga, ma una malattia tropicale l’aveva costretto al ritorno.
Aveva cominciato a saldare qualche debito, ma per pulirsi bisogna ancora lavorare molto.
Diceva: “Se almeno i miei debitori mi pagassero, è come sperare che il sole non spunti”.
I creditori mandano le mie cambiali in protesto e l’ufficiale giudiziario conosce la mia casa come le sue tasche.
Cosa viene a fare se ormai non c’è più nulla da prendere?
È una grossa umiliazione. Se è per me non ci faccio caso, ma quando vedo i miei bambini, il cuore mi scoppia.
Mia moglie ed i suoceri mi odiano.
Se morissi l’Eterno mi farebbe un grosso piacere.
Ma perché non fai mandare l’ufficiale giudiziario in casa dei tuoi debitori? Lì ci sarebbe da prendere….
Scusami ma non lo farò mai, è contro i miei principi.
Se guarirò, partirò in cerca di lavoro.
Troverò gente che non considera umiliante pagare chi lavora.
Era passato tanto tempo e nessuno l’aveva più visto.
Ho voluto chiedere alla moglie e m’ha risposto che non sapeva.
Una mattina era partito chissà per dove, forse non lo sapeva neanche lui.
La moglie m’ha detto che ogni mese il Banco di Sicilia l’invitava a riscuotere delle somme considerevoli con cui pagava i debitori.
Si perché quando era partito aveva più debiti che capelli.
S’era fermato in un paesetto posto ai confini con la Svizzera.
Dopo tanta sfortuna, la buona sorte lo fece incontrare con un caro e onesto amico che lo ospitò a casa sua e gli trovò lavoro presso una grossa falegnameria. Il paese era in Italia, a ridosso della Svizzera ove lavoravano. Era posto a circa un centinaio di metri e si attraversava la frontiera.

 

VIGILIA DELLA CACCIA

Ogni anno per noi cacciatori è una tradizione festeggiare la vigilia dell’apertura della caccia. Ci si riunisce nella casa del campiere, in aperta campagna, si versa una quota stabilita e col ricavato si comprano due agnelli direttamente dai pastori che, data l’amicizia che intercorre col campiere, ci danno roba buona. Gli agnelli, dopo essere stati preparati a dovere, vengono disposti in una graticola enorme e girevole. Quando sono pronti, vengono disposti sul tavolo, tagliati a pezzi ed ognuno prende quelli che gradisce. Intanto nei piatti fuma un minestrone buonissimo. Mangiamo a sazietà. Si resta seduti attorno ad un tavolo gigantesco: si parla, si canta. Non disturbiamo nessuno perché siamo persi in fondo ad una campagna enorme e solitaria.
Si raccontano barzellette, si scherza, si ride: siamo felici.
L’aria è secca e tiepida; soffia una leggera brezza proveniente dal mare. Anche quando in paese il caldo è pesante ed afoso, in quella semi-vallata, il clima è meraviglioso.
La caccia si apre all’alba e succede che alcuni rientrano con l’intento di tornare l’indomani, mentre tanti altri si distendono sui letti di casa, qualche altro in macchina e dormicchiano in attesa dell’alba.
Si è all’estremo Sud della Sicilia. La zona è intercalata da colline steppose ed aride per la siccità.
Le coltivazioni riguardano lunghi e larghi rettangoli di carciofi, pomodori, mandorli, ulivi, uva, ecc. In quel punto si trovano dei pozzi da cui si ricava acqua abbondante per irrigare la terra coltivata. È un punto ricercato per la presenza dell’acqua, per il resto puoi girare a perdifiato e l’acqua te la sogni.
In mezzo alla conca si staglia un torrente con erbacce verdi e piante selvatiche.
Nei primi giorni di caccia qualcosa si prende: qualche coniglio selvatico, delle lepri, pernici ed uccelli vari.
Il sottoscritto, quando nota che c’è poco da cacciare, si stufa di portare il fucile e preferisce, mentre gli altri insistono nella caccia, cercare lumache. Quando la sera, i cacciatori tornano coi carnieri vuoti, il sottoscritto porta a casa due sacchetti, quasi sempre pieni, di lumache. Se non vi fossero le lumache, la cena, per tutti, sarebbe magra.
Queste sono occasioni ove ognuno è libero di dare sfogo a tutti i propri sentimenti. I casi in cui ci si trova uniti sono pochi.
Il fatto è che ci lasciamo trascinare da altre cose ove domina un solo insulso, grande, immenso interesse: il dio denaro.
Serve il denaro, ma la giusta misura. Tanti, troppi, non sono mai sazi e quando si arriva all’ultimo giorno di questo cammino, forse qualcuno sente il bisogno di gridare con tutto il cuore a chi ancora cammina, che la vera vita non è la spietata lotta per la ricchezza, ma la gioia di vivere! Chi così vive, segue la giusta strada perché aiuta gli altri a rispettarsi ed anche a volersi bene.
Col passare dei giorni la caccia si affievolisce, fino a perdere tutto il suo interesse. Così, col passare del tempo, si torna a pensare alla nuova apertura e a rifare progetti.
  

 

IL LAGO DI GARDA

Da Peschiera a Lazise la costa sembra la parte femminile della uniforme pianura veneta, ove arrivano d’inverno le propaggini del freddo e delle nebbie che caratterizzano l’interno del veronese, mentre d’estate la temperatura si fa pesante ed afosa.
Però via via che ci si avvicina al comune di Garda il clima risente sempre più del beneficio del lago, mitigando i suoi rigori.
Da Garda in su è tutto uno spettacolo di bellezze naturali: in alto valli e monti ora aridi, ora selvosi e prativi, in mezzo, spianate con gli ultimi campicelli e casolari, al piede placidi seni, promontori ammantati di ulivi e di scoscesi scogli.
Fino ad una trentina di anni fa circa, il clima era temperato, col vantaggio che gli acuti freddi dell’inverno venivano addolciti dal tepore che si sprigionava dal lago e gli intensi calori dell’estate erano rinfrescati dalle brezze che calavano dai circostanti monti; l’aria era satura ed ossigenata di profumi: alloro, cedro, ulivo, pino ed erbe. Una delle caratteristiche fondamentali del lago è rappresentata dal numero consistente di venti che imperversano alla superficie e nei fondali.
La valle del lago, raccolta, in modo particolare a settentrione, lontana dai grossi centri, offre calma e riposo: molti artisti vi hanno dimorato per lunghi periodi, trovando la pace dell’anima, il desiderio della meditazione e dello studio.
Fin dai tempi più remoti intere popolazioni corsero a stanziarsi qui per godersi questo tranquillo nido.
Tito Livio, nominando i luoghi ove ora siedono Brescia e Verona, fa intendere che questi, prima che dagli etruschi e dai Galli, erano stati occupati dai Libui. I Libui, come i liguri, appartenevano all’antica schiatta degli Iberi che per primi arrivarono in Italia.
I Liguri preferirono abitare presso le acque, lungo i fiumi maggiori e minori, presso il Po e la Sesia. Furono noti agli antichi per l’allevamento del bestiame. Conobbero la caccia e si nutrivano con la carne di animali selvatici che uccidevano con la fionda. Credevano nella risurrezione dei morti ed avevano tanto riguardo per i cadaveri che seppellivano, rannicchiati in una fossa circondata da rozze pietre insieme agli oggetti che avevano usato da vivi. I Veneti, secondo le identificazioni di studiosi, erano discendenti da Mosoch.
I primi veneti non si inoltrarono fino al Benaco, ma arrivarono fino a Padova e dintorni. Il nome di Veneto che ora si dà al nostro territorio, non fu immediatamente dato da loro, ma gli venne reso undici secoli più tardi dall’imperatore Ottaviano Augusto quando divise l’Italia in undici regioni.
Le prime case furono costruite sopra scogli per natura inaccessibili da tramontana e da Nord, riparati da alte muraglie da sud e da levante ove si prestavano ad essere assaliti per cui furono tagliati a picco.
Nell’anno
60 a.C. la Gallia Cisalpina, in cui era compreso il territorio veronese, venne assegnata a Giulio Cesare che ogni anno vi accorreva a presiedere della adunanze generali e nel 49 gli diede il titolo di Gallia Togata, forse perché si trovavano in essa delle colonie appartenenti a cittadini romani.
Nell’anno
15 a.C. Ottaviano Augusto ordinò la sottomissione dei Reti trentini che si erano ribellati a Roma.
Nel
13 a.C., tutte le genti che occupavano le interne vallate delle Alpi, dal mare Adriatico al Tirreno e Ligure, vennero assoggettate a Roma.
Da allora fu estesa a tutta la penisola la cittadinanza romana e venne dato il nome di Italia. Per ordine dello stesso Ottaviano Augusto, l’Italia venne tenuta fuori dalle quattro province dell’impero ed unita a Roma, fu divisa in undici regioni: alla decima venne imposto il nome di Venezia Istria, circoscritta dalle Alpi e dai fiumi: Arsia, Adda, Po.
Detta suddivisione durò fino al basso impero, quando Diocleziano, ritoccando le dette regioni, restrinse i confini della decima regione, portando gli occidentali dall’Adda al Benaco, chiamando la regione non più Venezia Istria, ma soltanto Venezia.
I romani lasciarono i segni della loro presenza in molti paesi: Malcesine, Brenzone, Torri, Garda, Bardolino, Lazise, ecc., tanto nella lingua quanto nei monumenti; lo confermano alcune voci latine usate tuttora nel linguaggio dialettale: avers’eer = adversa-aer e denota l’aria stravagante che soffia a sbalzi ed in diverse direzioni; ne gotta = ne gutta, si usa per dire niente; ver gotta = veri gutta = qualcosetta; non verte = non vergit = non riguarda i nostri affari.
Le persecuzioni operate contro i cristiani nei primi tre secoli dell’era volgare e l’esistenza sin da 200 P.C., ci inducono a credere che in queste zone era giunta l’eco della buona novella.
Dopo la caduta dell’Impero di Roma, questi luoghi furono preda di varie popolazioni barbare che per lunghi secoli si avvicendarono nel dominarli, causando devastazioni, miseria, sofferenza e gretta ignoranza.
Ma è inconfutabile che la nuova civiltà nascerà, a distanza di molti secoli, dal miscuglio di barbari e di gente italica. I primi contatti si espressero in forma caotica e selvaggia perché erano popoli primitivi che accennavano a fare causa comune con una civiltà che ormai contava millenni di storia. È, direi, la realizzazione di un necessario ed imperscrutabile disegno divino che dall’urto di mentalità diverse fa scaturire il miglioramento dei popoli.
 
Nel 476 si stanziarono gli Eruli con a capo Odoacre, indi gli Ostrogoti fino al 553. Le istituzioni romane rimasero invariate tranne la divisione di un terzo delle terre ai barbari e l’istituzione di un magistrato ostrogoto in ogni città.
Nel 553 scesero masse di alemanni con la scusa di difendere gli ostrogoti, battuti prima da Belisario e poi da Narsete.
Dopo, per 13 anni il governo di queste zone passò ai greci che la governarono militarmente. Furono abolite le istituzioni imposte dai barbari ed a capo della città furono nominati dei duchi e dei vescovi.
Tale disposizione generò i diritti dominicali del vescovo di Verona su tutti i paesi della costa interessata, che durarono per tutto il Medio Evo. Nel 568 i Longobardi comandati da Alboino, occuparono tutta l’Italia settentrionale e parte della centrale. Venne ripristinata la legge che voleva la divisione di un terzo delle terre ai barbari. Una buona parte del raccolto serviva al sostentamento del re e della corte. I duchi con le loro corti vivevano nelle città, mentre una parte era abituata a vivere nei campi con case isolate alla maniera germanica. Le tracce, che tuttora si riscontrano, di abitazioni e di terre coltivate in zone sperdute nei boschi del Baldo, sono da attribuirsi al tempo ed ai costumi dei Longobardi.
Nel 590 scese in Italia un grosso esercito di Franchi mandati da Childerico, re d’Austria.
Racconta lo storico Paolo Diacono che nelle valli del Trentino e lungo la costa del lago, molti castelli vennero distrutti, campi devastati e una gran quantità di abitanti venne resa schiava dai conquistatori.
I resti dei castelli distrutti sono dispersi sotto vecchie costruzioni: l’ex ospedale al porto vecchio di Malcesine, la casa sita sul crocevia Traverso e Casella, ecc.
Nel 774, sconfitto Desiderio, ultimo re dei Longobardi, il dominio di queste terre passò ad un suo parente, Eginone, vescovo.
Questo avvenimento riveste particolare importanza perché spiega la nascita del nome Garda esteso al lago, prima Benaco, e a tanti paesi dislocati lungo le coste veronese e bresciana.
Eginone divise il territorio di Verona in tanti distretti giudiziari, separati dalla città, in ciascuno dei quali nominò un giudice o guastaldone o guarda, titolo che rimase a designare delle regioni: Valli Giudicarie, Garduno, Territorio Gardense, Giudicaria Gardense, oppure il paese di residenza del magistrato: Garda, Gardola, Gardona e Gardoncino.
In quanto all’origine del nome Benàco non ci sono documenti che ne danno spiegazioni. Durante il corso di una conferenza tenuta a Torri , l’insegnante A. Solinas, trattò il tema: “la costa veronese del lago di Garda dalla preistoria ad oggi”. Il conferenziere, studioso di problemi del Garda, disse che il nome è di origine indo-europea e che, stando all’etimologia, significa: fortemente addentrato.
Lo storico Giuseppe Vedovelli afferma che: “la vera origine di Torri non si conosce, perché si perde nella oscura notte dei secoli”.
Nell’806, Carlo Magno effettuò una prima divisione dei suoi domini, nominando re d’Italia, con sede a Verona, il figlio primogenito Pipino.
La devozione di questa gente verso i santi: Zenone, Benigno e Caro è fortemente sentita. A tal proposito si racconta che Pipino era solito recarsi a Malcesine, presso l’eremita Benigno, per confortare la sua anima bisognosa di salute spirituale.
A quel tempo si verificò un fatto ricordato dalla tradizione e sostenuto da due documenti, l’uno del 1050 (vedi Biblioteca Capit. di Verona. Codice L, vol.II e ss. Traslatio corporis S. Zenonis) e l’altro del 1320 (vedi Bibl. Capit. Ver. Codice CCIV, fol. 225 Historia Imperialis).
Eccone la descrizione:
«A Verona il corpo di S. Zeno giaceva in luogo indecente. La grande generosità del re Pipino e l’amore del Vescovo Rotaldo commisero all’arcidiacono Pacifico di costruire una chiesa sotterranea sopra colonne ed un avello di marmo lucido per riporvi il santo corpo. Compiuta la costruzione, si prese la decisione del trasporto delle sante reliquie. Ma, strano caso, nessuno osava avvicinarsi a quella rispettabile arca, da cui pareva uscire qualcosa di sacro che intimoriva e disanimava. Fra le tante proposte si stabilì di implorare la bontà di Dio e del Santo coll’innalzare per quaranta giorni pubbliche preghiere e digiuno tre giorni alla settimana. Mentre ciò si faceva, venne in mente a Pipino il famoso solitario e tosto manifestò il suo pensiero al vescovo. Scelsero allora speciali messaggeri e mandarono ad invitarlo. L’eremita Benigno era uomo venerando, di santissima semplicità, di vita purissima e d’immensa astinenza. Abitava presso il lago. In luogo dirupatissimo aveva costruito una cella ed un oratorio, ove, in compagnia del suo discepolo Caro, viveva in continue veglie, digiuni ed orazioni. Ricevuto l’annunzio, accettò l’invito, licenziò i messaggeri incaricandoli di portare i saluti al vescovo ed al re, assicurandoli che li avrebbe seguiti. Entrò nell’oratorio, chiese aiuto al Signore e si mise in viaggio. Poco distante dalla sua cella, una merla, garrendo e svolazzando, tentava di impedirgli il cammino ed egli le comandò di non muoversi fino al suo ritorno. Giunto a Verona, fu ricevuto onoratamente dal re, dal vescovo e dagli altri personaggi. E, udito quello che si voleva da lui, il 21 maggio
807, in uno stato di ansia entrò nel sepolcro, levò le venerate ossa e con ordine, ad una ad una, le pose nel nuovo pulito avello. Grande fu il giubilo di tutti i veronesi nel vedere compiuto il loro pio desiderio.
Benigno, desideroso di tornare all’eremo, affrettò la partenza. E sbarcato al porto di Campagnola per San Marco arrivò al suo domicilio.
Prima di giungervi, trovò nello scavo della rupe la merla morta. Compassionandola, disse: “Questa errò per suggestione del demonio, ed essendo irragionevole, sbagliò ignorantemente, fu degna di perdono non di morte”. Per questo motivo si condannò per quaranta giorni a rigorosissimo digiuno. A ricordare questo fatto sta ancora appesa l’immagine d’una merla fatta di metallo».
Dopo la deposizione di Carlo il Grosso, avvenuta nell’anno 887, incominciò ad estendersi un nuovo ordinamento sociale che va sotto il nome di Feudalesimo. La nuova situazione politica imponeva l’accentramento della sovranità e della proprietà territoriale in una sola persona che era il re o i suoi vassalli. Molte furono le cause che determinarono detto avvenimento storico che rimarrà attivo per tutto il periodo del Medio Evo, ma a noi non spetta parlarne perché esulano dal nostro tema.
I vescovi ricavarono grossi vantaggi economici, disponendo anche di cariche speciali che li ponevano a capo di interi territori.
Il vescovo esercitava ordinariamente la giurisdizione civile, cioè: concessioni di domande, approvazione di deliberazioni popolari, sentenze giudiziarie. Amministrava i distretti del territorio a lui soggetti, esigeva le rendite a lui spettanti. Riforniva e disponeva dei magazzini del vino, dell’olio, del frumento e di altre derrate e pagava gli impiegati per mano del massaro o canevaro.
L’autorità civile che il vescovo aveva sopra popoli a lui soggetti, lentamente passò nelle mani del popolo. Si cominciò prima nelle città, poi nel contado. Il 16 febbraio 1351 l’imperatore Carlo IV° nominò capitano del lago il nobile uomo Mastino II° della Scala.
Detto avvenimento può considerarsi il ponte di passaggio dalla amministrazione feudale alla confederazione gardesana, presieduta, nelle sue riunioni, dal capitano del lago.
Il territorio della “giudicaria gardense”, tenuto distinto da Verona fin dall’alto Medio Evo e la concessione del capitanato del lago agli ultimi scaligeri, costituirono gli elementi per cui sorse la Gardesana dell’Acqua. Era questa una piccola repubblica, una federazione di 10 comuni, distribuita in tre colonnelli (in questo periodo A. Della Scala fece fondare a Torri il famoso Castello che con le sue tre punte guarda impervio le acque che le terribili spinte del vento scavalcano, a volte, il porto).
Il colonnello di sopra, composto da Malcesine, Brenzone, Pai; colonnello di mezzo, costituito da Torri, Albisano, Garda e Costermano ed il colonnello di sotto, formato da Bardolino, Cisano e Lazise. Questi comuni in proporzione ai loro abitanti eleggevano 18 consiglieri ed un sindaco per formare il consiglio federale che si radunava a Torri o a S.Vigilio perché posti in luogo centrale. Il naturale presidente del consiglio era il capitano del lago. Costui aveva anche il compito di vigilare e difendere i confini del territorio dagli eserciti nemici, di catturare i delinquenti e di vietare il contrabbando attraverso il Baldo ed il Benaco.
Fu questo un periodo di pace e di benessere.
Nel 1717, col trattato di Campoformio, Napoleone Bonaparte, dopo 14 secoli di gloriosa esistenza, cedette la Repubblica di Venezia all’Austria.
Così tutto questo territorio passò sotto la dominazione austriaca.
 
Col trattato di Luneville del 9 Febbraio 1801 fu sciolta la federazione dei 10 comuni della Gardesana del lago e abolito il Capitanato del lago. Con questi mutamenti Garda divenne sede di pretura. Tutti i libri e le carte della federazione vennero raccolti e consegnati al sindaco di Torri. Oggi molti di quei documenti si trovano nell’archivio di Bardolino.
Il 26 dicembre 1805, gli austriaci dell’Adige si ritirarono oltre l’Isonzo, e col Veneto, Lombardia, Emilia, Marche, si formò il secondo regno d’Italia con Napoleone re e viceré un suo figlio adottivo. Il 30 Maggio 1814, col trattato di Parigi, sorse il regno Lombardo-Veneto, sotto il dominio dell’Austria.
La provincia di Verona fu ripartita in 12 distretti, ultimo dei quali era Caprino, che comprendeva i comuni di Bardolino, Brenzino, Brenzone, Castione, Cavaione, Garda, Lazise, Malcesine, Rivoli, S. Zeno di Montagna e Torri. Il 4 aprile dello stesso anno alcune frazioni divennero comuni: Brenzone si moltiplicò nelle cittadine di Castello di Brenzone, Castelletto di Brenzone e Magugnano. La pretura da Garda venne portata a Malcesine. Presto si rilevò la difficoltà di accedere al pretore. La via del lago era incerta; la strada che serpeggiava per i fianchi del Baldo non raggiungeva neanche la classifica di mulattiera.
Così si pensò ad una strada piana, carreggiabile e in riva al lago, che congiungesse Malcesine con Garda. Il progetto venne eseguito dall’ing. Toblini Giacinto e i lavori vennero ultimati intorno al 1832.
Nel 1836 scoppiò il morbo colera, che da giugno a settembre falciò 140 vite umane.
Durante la prima guerra d’indipendenza tutti gli abitanti del paese della gardesana orientale seguirono trepidanti le vicende più impegnative, sperando e pregando per una decisiva vittoria delle truppe italiane, al fine di sottrarsi per sempre al giogo della dominazione straniera.
La gardesana era l’unica via di passaggio per le soldatesche che a gruppi, continuamente, si portavano dall’Italia in Austria e viceversa.
Più volte con fare risoluto, si stanziavano nelle case private, mangiando e bevendo a spese degli abitanti e dei comuni.
Dopo la sconfitta di Novara, coloro i quali avevano parteggiato animosamente per l’Italia, dovettero darsi alla fuga per non incappare nelle punizioni inflitte dalle autorità austriache.
Il 16 ottobre del 1866 tutto il Veneto poté annettersi al resto dell’Italia. Tale avvenimento fu salutato con parole di giubilo di tutto il popolo. Si estese un primo avviso della deputazione comunale: “Ecco finalmente il momento tanto da noi desiderato! Ecco dopo 52 anni di catene rivendicati alla libertà! Oh! parola di giubilo! Oh! momento beato in cui possiamo con libertà esprimere i segreti del cuore! Non c’è dubbio! ormai siamo liberi!…
Il 25 novembre del 1866 fu compiuto il primo atto politico.
A Bardolino, considerato unico seggio dell’intero distretto, affluirono, per mezzo di un piroscafo, tutti gli elettori di Malcesine, Brenzone e Torri, che ammontavano a 536.
Tra il 1876 e il 1878 sei religiosi abbandonarono la famiglia, il paese, gli affetti più cari per andare a convertire al cristianesimo i selvaggi dell’Africa Equatoriale. Quattro di quei nobili pionieri persero la vita in breve tempo e gli altri due rimasero per vari lustri a lottare contro le intemperie della natura e la selvatichezza delle genti per compiere santamente la loro pia opera.
 
Nell’estate del 1886 venne piantata la linea telegrafica collegata con Malcesine, Garda, Peschiera e Verona: nell’autunno ebbe inizio il servizio dei telegrammi. Sorsero i primi edifici scolastici; furono realizzate nuove vie e piazze per dare sfogo ai paesi. Con questo nuovo passo verso l’edilizia, si mossero anche i privati e subito iniziarono lavori di restauro per le proprie case, spogliandole di quelle note di antichità, tanto pregiate e ricercate dagli artisti nostrani e stranieri che numerosi accorrevano per raccogliere abbondante materiale per i loro studi. Questo fu il momento in cui la campagna incominciò a popolarsi di ville signorili.
Il primo gennaio del 1910 molte famiglie furono provviste a domicilio di acqua potabile a mezzo dell’acquedotto e la sera dell’otto settembre dello stesso anno, le vie di alcuni paesi, con meraviglia degli abitanti, furono illuminate dalla luce elettrica, sviluppata dalle sorgenti di Cassone.
Il 24 marzo 1914, con meraviglia di tutti, si vide volare, al di sopra delle case, un dirigibile che raggiungeva la velocità massima di
80 Km orari.
Era munito di motore e di tante corde. Era manovrato da quattro persone.
 
Il 24 maggio 1915 fu intimata la guerra all’Austria Ungheria per la cessione del Trentino, di Trieste e della Dalmazia; Malcesine divenne regione di frontiera: fu spettatrice di un grosso movimento di milizie e venne considerata zona di guerra. Molti abitanti non potevano recarsi ai propri campicelli perché siti oltre la linea di frontiera. Ciò che incuteva maggiormente paura alle popolazioni erano le bombe sganciate da apparecchi nemici. Infatti tante ne caddero nei centri abitati ed anche su chiese e cimiteri, causando vittime e molti danni.
L’armistizio venne salutato con gridi di gioia: per le vie dei vari paesi si fecero delle processioni religiose e venne cantato il “Te Deum”.
Subito dopo la guerra, molti si diedero ad atti di banditismo: rubarono in case private e luoghi pubblici. Tanti, per paura di essere assaliti dai ladri non si recavano nei propri campi.
Finalmente con provvedimento 8 Marzo 1927 venne messa in opera la continuazione dell’attuale statale N.249 “Abetone-Brennero”. Da Navene a Val di Massa si snoda tra la riva del lago e verdi boschetti, dossi e vallette, quindi si aggrappa ai fianchi di dure rocce cadenti a strapiombo sul lago e traforate da ampie gallerie. La prima si interna nel monte tra Cantone e Orto d’Abramo, l’altra tra il Cavolo della Regina e la Co. Magnacarne, la terza tra Canole e Val di Marsa.
Ultimata è pure la parte spettante alla provincia trentina che avanza penetrando tra le gallerie.
La statale che costeggia il lago fino a Peschiera venne realizzata a partire dal 1929.
Dal 1930 fino a dopo l’ultimo dopoguerra, la popolazione del Garda condusse una vita umile, povera, ma serena. La guerra non fece sentire in modo pesante la sua terribile morsa: qualche bombardamento aereo su navi tedesche ancorate o vaganti per il lago; giovani morti sul campo di battaglia; qualche caso di diserzione, ecc. La piaga che causò fondate lamentele e danni non indifferenti, fu la lotta scatenatasi tra partigiani e nazifascisti dopo il fatidico 8 settembre 1943. Si contarono a centinaia le vittime di detta rappresaglia. Potrei fare un lungo elenco di episodi drammatici che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, si ricordano con disgusto.
A S. Zeno di Montagna un gruppo di fascisti, proditoriamente, uccisero il sindaco del paese e ne seviziarono la moglie.
A Pai, dei partigiani, di notte, entrarono in una abitazione, dopo aver forzato la porta, e sotto gli occhi atterriti dei genitori, ridussero a una maschera di sangue, a furia di calci e pugni, l’unico loro figliolo. Poi gli strapparono con violenza i pochi indumenti che aveva addosso, e, nudo, sotto la minaccia delle armi, gli fecero attraversare un intero bosco e quando, per il freddo, le umiliazioni e i tormenti patiti, cadde svenuto, lo crivellarono di pallottole.
A Garda, per vendicarsi di un torto subito, due fascisti presero il figlio appena quindicenne di un possidente, lo denudarono e sulle spalle e sul petto, con la punta del pugnale, tracciarono profonde incisioni. Dopo lo fecero salire su una barca, lo portarono a molta distanza dalla costa e lo gettarono in acqua: tutte le volte che, stravolto, si attaccava alla barca per sfuggire alla sicura morte, col calcio del fucile gli schiacciavano le nocche della mani, facendolo ricadere in acqua e così fecero fino a quando non lo videro scomparire nei fondali.
 
Dopo l’ultimo conflitto mondiale tutto è tornato sereno come prima.
La vita scorre lenta e silenziosa. Nelle tiepide giornate primaverili, i pochi prati sparsi sui pendii, tra occhiaie di roccia variopinta e spigolosa, sono un soffice manto di fresca erbetta sulla quale pascolano le mucche.
Il tempo scorre lento e inesorabile.
La vita del creato è assorbita dall’eternità. Ogni rumore è un canto di semplicità. Qui tutto s’è fermato dall’atto della creazione.
Il cinguettio degli uccelli, il frusciare delle foglie, il ronzio degli insetti, il muggito del bue, il canto malinconico del mandriano, i colpi secchi della zappa che affonda nella terra, scheggia pietre perse nelle zolle, lo specchio del lago che, illuminato dal sole, luccica come una lamina metallica, ti riempiono il cuore di una musica soave che ti segue come un’ombra ovunque tu vada e con forza inarrestabile ti spinge al ritorno per sentire il respiro degli avi e confondere l’anima con l’ineguagliabile bellezza di una natura selvaggia.
Verso l’imbrunire, quando il sole descrive disegni irripetibili nelle squarciature delle nuvole, sulle cime dei monti, sulla liscia superficie del lago, sulle case e lungo le strade e i sentieri dislocati sulla riva, tante barche, spinte dal ritmato battere dei remi, scivolano sulle dolci acque: sono i pescatori che vanno a mettere le reti.
 
Al primo accenno di luce, soavi canti dialettali si levano nell’aria pulita e assonnata. A poca distanza non si distingue ancora. Sagome di barche appaiono e scompaiono nella penombra. Figure umane ondeggiano, avanzano tagliando l’aria col movimento della braccia.
Hanno sentito il canto del gallo, l’hanno aspettato per ore. I loro occhi hanno guardato nel buio, mentre l’intera famiglia, coi visi composti, russava beatamente. Per ingannare l’attesa hanno pensato alla loro vita passata: il padre, pescatore e prima di lui il nonno e così il nonno del nonno, chiama: “Giovanni, alzati, è ora”. Che brutta parola – “alzati” – quando il sonno ti incalza e ti imbambola. Eppure bisogna. Non si può fare aspettare il vecchio. Una mano alle brache e l’altra, tentoni ti guida nella ricerca del vano per rotolarti giù dalla scala. Una spruzzata d’acqua sugli occhi e si è sulla strada, ciondoloni verso la barca, che legata al molo, lamenta i suoi acciacchi.
Così è stato per una vita e ancora si continua: non cambia la musica.
Quanto tempo è passato! Cosa puoi dire? Ma a che vale? Lo sanno gli anziani meglio di noi ora che, spossati dagli anni e dalle fatiche, hanno tutto il tempo per meditare sulla vita e sul mondo. Chiedilo a loro. Il tempo passa, ma la vita del pescatore non cambia.
Quando il vecchio padre moriva, aveva la bocca storta e l’occhio avvizzito: voleva regalarti il mondo, poverino. Ti ha lasciato le reti e la barca: cosa volevi di più? Non aveva altro, però in quelle poche cose c’era il suo cuore: questo non te l’ha detto, ma tu l’avevi capito.
Fino a poco tempo fa agricoltura e pesca erano le uniche attività a cui si dedicava questa gente. I pochi rimasti lavoravano ancora e sbarcavano il lunario alla men peggio, tranne però nei periodi di fregola perché solo allora era possibile ottenere delle abbondanti pesche. Un aiuto era dato dalle moderne attrezzature molto più pratiche e funzionali delle reti di un tempo.
Il pesce che in modo particolare consente un buon guadagno, è il carpione, che si può considerare un esemplare quasi unico del lago di Garda. Né d’altro canto è possibile pensare che se ne possano fare degli allevamenti, perché ogni tentativo è risultato inutile.
Le coltivazioni che assorbono maggiormente l’interesse del contadino sono l’olivicoltura e la viticoltura.
La raccolta delle olive dura parecchio tempo e impegna molta manodopera. Le olive sono piccole e con poca polpa; da esse però si ricava olio di ottima qualità. A questi proposito tutti i paesi della riviera sono muniti di oleifici.
Fin dagli anni trenta, per quanto in modo esiguo, sono state costruite delle magnifiche ville. Ma allora, data la poca richiesta, la terra costava poco. Anzi, dicono gli anziani che i compratori più che all’estensione e alla posizione della terra, badavano al numero di piante di ulivo contenute nell’area da acquistare. Via via che si andava avanti nel tempo, i paesi si arricchivano di nuove case e i dolci declivi di nuove lussuose costruzioni.
 
Sorsero moltissimi alberghi, locande, pensioni. Terminata la guerra, quando il mondo riprese a ricostruire la propria vita, acquistando fiducia e un po’ di benessere, questa zona divenne teatro di battaglia per il turismo.
Fu meta di tedeschi, olandesi, danesi, belgi, inglesi, francesi. In modo particolare: tedeschi, olandesi e danesi. Durante l’estate venivano intere colonie di stranieri. La popolazione locale rimase sbalordita dal numeroso afflusso e, da pescatori e agricoltori, dovettero trasformarsi in albergatori, ospitando nelle proprie case, famiglie intere. Naturalmente quei pochi vani esistenti non bastavano a dare ricetto allo strabocchevole numero.
Per quanto fosse un turismo di massa, i guadagni realizzati furono considerati enormi dagli abitanti, che nella loro vita erano stati abituati a grossi sacrifici e a salari miseri. Non si spaventarono, per quanto disorientati. Capirono che bisognava costruire alberghi, pensioni, case. Furono chiesti mutui allo Stato, alle banche e gli alberghi nascevano come funghi.
 
Nel contempo anche la terra aumentò di prezzo. Chi possedeva campi in buona posizione rispetto al lago, vendette e accumulò delle somme enormi.
Il livello di cultura di questa gente era bassissimo. Erano moltissimi gli analfabeti e i semianalfabeti. Soltanto pochi sapevano leggere, scrivere e far di conto. Ma il benessere non badava a queste cose.
Erano rudi nel trattare gli ospiti, ma non erano cattivi. I primi contatti furono aspri, ma la massa di turisti che affollava la zona non aveva pretese. Erano quasi tutti operai e contadini anche loro.
Il tempo li affinò: divennero gentili, servizievoli. I turisti erano contenti.
 
Una parte di essi divennero dei clienti fissi.
I figli degli albergatori hanno studiato: conoscono delle lingue, aiutano i genitori.
 
Il tenore di vita è aumentato. Molti sono ricchi. I pescatori sono ridotti a pochissimi. È possibile esercitare diversi mestieri perché l’edilizia è in pieno vigore. Sono nati una miriade di negozi, bar e locali notturni. Gli agricoltori, quando i campi non hanno bisogno della loro opera, fanno i manovali. La stessa cosa dicasi per tanti altri fra cui anche i pescatori. Non molto tempo fa in Italia si registrò una grossa crisi nel campo dell’edilizia. Ebbene, qui non se ne ebbe il minimo sentore. Qui si è sempre lavorato e la gente è contenta e ben pasciuta. Anche la mortalità è molto bassa. Quei pochi che passano a miglior vita sono vecchi decrepiti, tranne rari casi di giovani e di gente di media età.
Tutti i paesi sono stati allargati con nuove piazze, vie e posteggi per le automobili.
Una serie indecifrabile di segnali regola il traffico e il parcheggio nell’interno degli abitati.
Con questo sistema si è riusciti a ottenere quella benefica tranquillità che l’uomo d’oggi cerca con vivo desiderio. Oggi, dopo l’ultimo conflitto mondiale, sono stati costruiti un numero esorbitante di grandi hotel, alberghi, pensioni, locande. Sui monti si contano un numero molto grosso di ville, tra cui alcune di rara bellezza.
La costa orientale del lago, senza dubbio, è più povera e forse meno bella della opposta costa occidentale, però mantiene le sue caratteristiche naturali incontaminate dall’assalto delle costruzioni in cemento armato operate dall’uomo da anni a questa parte, bisogna riconoscere che in questi ultimi tempi il cemento non ha risparmiato anche questa zona.
La “Punta San Vigilio” che si propende nel lago per duecento metri circa dalla strada statale, tra un andirivieni di viali e una varietà enorme di piante, di verde e di fiori, appare una villa la cui bellezza e il cui valore sono inestimabili, tanto da essere stata dichiarata monumento nazionale. Ai piedi di detta villa, trovasi un albergo che appare sul fondo di una giogaia di vicoli strettissimi dal fondo ciottoloso incuneantisi a serpentina tra collinette e campi. Appartiene ad un inglese che lo gestisce con l’aiuto di un esiguo numero di camerieri. La prima cosa che colpisce è il silenzio e la tranquillità che si sprigionano da ogni angolo della costruzione. Durante la guerra vi soggiornò per un po’ di tempo, con un nutrito seguito di politici, Winston Churchill. A questo proposito si racconta che la presenza di detto personaggio, avendo causato uno scombussolamento nella vita ordinata e tranquilla di quell’oasi di pace, il proprietario, per niente intimorito, pregò gentilmente Churchill di lasciare al più presto l’albergo.
Nella parte meridionale del lago, l’entroterra è costituito dalla campagna della pianura padana. La natura qui ha perso tutta la sua bellezza.
Non si vedono i bei monti con le cime alte e frastagliate, quindi manca lo scenario dei boschi.
Oggi i pescatori si sono ridotti ad un numero molto esiguo.
Sono aumentati gli alberghi di ogni tipo e genere in una maniera straripante. Gli albergatori sono ricchi e soddisfatti.
Le strade sono battute da un numero esuberante di autovetture, camion, biciclette, e per questo motivo si verificano incidenti anche mortali. Il lago è solcato da ogni tipo di barche.
Dei grossi traghetti uniscono le due coste.
Durante l’inverno diminuiscono completamente la presenza di italiani e stranieri.
L’aria è benefica e salutare tanto che gli ammalati di cuore sono consigliati da medici specializzati di trascorrere lunghi periodi, se vogliono ottenere dei benefici, nella parte alta del lago.

 

LA FURIA DEL VENTO NEL LAGO DI GARDA

Il 29 giugno, giorno di S. Pietro e Paolo, di pomeriggio, mentre con un gruppo di amici trascorrevamo pacificamente un po’ di tempo chiacchierando e giocando a carte nel retro della pizzeria “ARMANDOS”, abbiamo visto delle barche a vela sollevate e buttate in acqua con una violenza incredibile ed anche altri che si lasciavano trascinare pacificamente dalle onde, distesi in piccole imbarcazioni di plastica, di gomma, ecc., vennero sollevati in aria ed i loro natanti correre sulle onde schiaffeggiati dal vento. Guardammo sgomenti questa inattesa e traumatica scena ove uomini e donne erano in preda al panico. Le sirene della polizia destarono la nostra curiosità e ci portammo al porto da dove si vedevano dei carabinieri, alcuni posti sul tetto dell’albergo Torri, che armeggiavano su apparecchi riceventi e trasmittenti. Non riuscivamo a renderci conto di ciò che stava succedendo. Poi abbiamo saputo da gente bene informata, che la polizia di Riva del Garda aveva comunicato a tutte le forze dell’ordine dei paesi del lago, fino a Peschiera, che la coda di un tifone, proveniente dal Trentino, s’era infilata nel lago, proseguendo la sua corsa verso sud coi danni enormi che poteva causare.
Purtroppo non fu possibile informare quelli che erano sul lago, del pericolo che inesorabilmente li minacciava.
Dal porto partiva con un motoscafo di normali proporzioni, una persona che chiamavano “conte” ed andava a recuperare tutte le persone che erano in grave pericolo di annegamento. Andava e tornava continuamente, con grande celerità. Riuscì a portarli in salvo tutti quanti. In quella che doveva essere l’ultima uscita d’ispezione, si verificò un incidente che ci commosse e stupì nello stesso tempo.
Sopra il motoscafo c’era una ragazza acciambellata, comoda ed indifferente. Appena il motoscafo fece la virata per prendere il largo, la ragazza perse l’equilibrio e cadde in acqua. Il conte virò in senso inverso per recuperarla, ma la ragazza, non sapendo nuotare, rimase immersa nel punto in cui era caduta.
Una pala dell’elica del motore la colpì con violenza vicino alla colonna vertebrale; poi dei volenterosi la portarono sulla panchina del porto. Un medico la visitò, furono usati dei mezzi per aiutarla a recuperare le forze, ma non si ottenne nulla e la ragazza morì.

 

UN LONTANO RICORDO

Ricordo che ero ancora un bambino quando successe ciò che sto raccontando. Come al solito uscii di casa verso le dieci per recarmi in piazza ove intendevo iniziare una nuova giornata di gioco. Lungo la strada incontrai un amico che mi disse: “Sto andando al “Fuotto”, contrada di campagna, ove, coi miei zii intendo trascorrere la giornata: vuoi venire?” Non mi feci neanche pregare. Senza dire niente ai miei genitori, mi unii al mio amico e prendemmo la strada della campagna. I suoi zii erano amici di famiglia e quando mi videro mi salutarono con effusione. Naturalmente mi chiesero se i miei erano a conoscenza della mia decisione ed io, bugiardamente, dissi di si.
Arrivammo verso mezzogiorno, pranzammo ed andammo nella campagna.
Il sole brillava in un cielo turchino e tutto intorno luccicava.
Le abbondanti piante di fichi d’India mostravano i maturi frutti carichi di spine, le viti lasciavano penzolare grossi grappoli molto maturi, gli uccelli cantavano nell’aria tersa e si intrecciavano in un continuo andirivieni di voli, la terra era disseminata di zolle con delle formiche incolonnate intente a trasportare il pesante cibo. Tutto sembrava gioire. In un angolo intercalato di ulivi, una miriade di api ronzavano intorno ad una fenditura e sembrava che si ostacolassero nell’entrare ed uscire. Mi avvicinai e guardavo, stordito dal grande movimento. Non feci in tempo a girarmi e sentii un violento pizzico sulla sommità interna del braccio sinistro. Sentivo un dolore acuto che continuava ad aumentare di intensità. Si sprigionò un gonfiore con un puntino rosso in mezzo. La zia accorse ed intervenne con un coltello ed incominciò a raschiare la lama sulla parte gonfia, dicendo che questo era il modo per curare ed annullare le conseguenze dei morsi di api.
Ci siamo messi a giocare rincorrendoci, poi abbiamo trovato un cane sconosciuto che cocciutamente ci seguiva nei nostri giochi. Prendevamo delle zolle e ce le scagliavamo contro.
Il cane seguiva ora l’una ora l’altra zolla. Poi abbiamo incominciato a rincorrere il cane che sembrava divertirsi. Intanto il sole era ormai al tramonto. Salutammo gli zii ed iniziammo il ritorno. Era tutta salita, in certi punti, anche impervia. C’era una miriade di gente che dalle lontane terre della piana si avviava a casa. C’erano asini, muli, cavalli e tanti a piedi come noi.
Intanto avevo saputo che la mia famiglia era molto preoccupata per la mia scomparsa. Mio padre mi aveva cercato e aveva chiesto informazioni ad amici miei. Ho saputo che uno gli aveva detto che m’aveva visto, la mattina, nei pressi del fiume. Mio padre ed anche i miei, non vedendomi arrivare, e saputa la storia del fiume, si erano convinti che mi fossi annegato. Mio padre denunziò la mia scomparsa alla caserma dei carabinieri che subito iniziarono a fare ricerche.
Erano calate le ombre della sera e nel cortile di casa mia i parenti, mia mamma, tutti vestiti in nero, in disparte mio padre, preoccupatissimo aspettavano colui che forse non sarebbe più tornato. Ero sulla strada e temevo di avvicinarmi perché le botte, questa volta, erano veramente meritate.
Accennai con la testa appena una spiata e mi vide una delle mie sorelle che si mise a gridare come un’ossessa. Ormai ero stato scoperto.
Entrai ed i miei genitori, le mie sorelle e tutti i miei zii incominciarono a baciarmi. Neanche un rimprovero, invece sembrava una serata di grande festa. A cena mio padre aprì diverse bottiglie di birra come nelle grandi occasioni. Mi credevano morto e m’hanno ritrovato vivo, ma con la coscienza veramente sporca!

                                                                                                                                                                    Salvatore Cantaro